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L'ORSO
(L'OURS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 29 dicembre 1988
 
di Jean-Jacques Annaud, con Tchéky Karyo, Jack Wallace, André Lacombe (Francia, 1988)
 
"L'ORSO non è soltanto un film al quale, esattamente come a ROGER RABBIT, finisce per nuocere lo strapotere della grancassa pubblicitaria (nel senso che gli toglie uno degli effetti sui quali è costruito, la sorpresa). È anche, come si compiacciono di sottolineare i numerosi detrattori dell'opera, un film imperfetto: il rifiuto dell'antropomorfismo (e cioè la preoccupazione di non cadere nella rappresentazione dell'animale che imita il comportamento dell'uomo, alla Walt Disney) sul quale, secondo l'autore, il film è costruito, è lungi dall'essere rigorosamente applicato. Il piagnucolio "umano", costantemente incollato alla presenza del pur adorabile orsacchiotto-protagonista è eccessivo e fastidioso. La musica di Philippe Sarde inutilmente trionfalistica e sentimentale. E il finale sul vogliamoci bene, alquanto di maniera: se è vero che la filosofia del film è all'incirca che viviamo in un mondo fatto di bassi e di qualche alto, di bontà e cattiverie dovute alle necessità di sopravvivere, di leggi naturali eterne che sono da prendere poiché è impossibile lasciare.

Ma l'imperfezione de L'ORSO, in un film nel quale i protagonisti sono due animali feroci, in un'opera-scommessa che conferma la grande propensione del suo autore per le esperienze "impossibili", mi sembra una faccenda piuttosto relativa. Poiché, sostanzialmente, L'ORSO sembra al contrario aspirare all'ordine, al desiderio d'iscriversi in una scala che riproponga gli oggetti e gli avvenimenti nelle loro proporzioni naturali: poiché, come afferma Annaud, "più ci avviciniamo all'essenziale, più riusciamo ad essere universali". Così come LA GUERRA DEL FUOCO descriveva un doppio itinerario iniziatico (l'apprendistato umano dell'essere primitivo; ma anche l'acquisizione, da parte del linguaggio che osservava quest'avvenimento "impossibile", della gag comportamentale tipica della tradizione cinematografica) L'ORSO, sempre nel nome di quell'osservazione del comportamento che sembra affermarsi come la componente tipica del cinema di Annaud, mette in scena due coppie simmetriche e contrapposte. Da una parte due orsi, dall'altra due cacciatori: ma in entrambi i casi un adulto e un cucciolo, un maestro ed un allievo. Due animali "umanizzati" da un lato, due uomini "animaleschi" (cacciatori spietati) dall'altro: che l'itinerario iniziatico dovrà condurre su un piano di parità, di comprensione e rispetto reciproco in un specie di ordine cosmico.

Fin dalle prime immagini il film riesce non soltanto a farci simpatizzare immediatamente con il "punto di vista" degli animali, ad identificarci ad essi piuttosto che ai cacciatori: ma, grazie all'artificio della messa in scena, a farci entrare in quel rapporto cosmico. Dall'infinitamente grande del paesaggio dolomitico che inquadra sontuosamente l'azione, Annaud passa costantemente all'infinitamente piccolo della dimensione animale: la farfalla, prima irruzione del meraviglioso, che l'orsacchiotto tenta di afferrare, improvvisamente dimentico della morte della madre. O i funghi, intravisti ad altezza olfattiva, che si caricano di sapori fiabeschi. L'occhio del cavallo che lacrima, dopo l'attacco dalla fiera. O le bacche di ginepro, golosamente addentate, prima che il loro rosso si tramuti in quello del sangue del grizzly ferito.

Come ROGER RABBITT, opera alla quale si apparenta per più di un motivo, L'ORSO è un prodotto del grande cinema industriale, il cui risultato deve ad ogni costo stupire (ed ammortizzare gli enormi costi derivanti da una produzione lunga e paziente, oltre che tecnologicamente avanzata) le platee di mezzo mondo. Ma, a differenza dal primo, quello di Annaud non si esaurisce in quell'effetto sorpresa: sorretto da una costruzione drammatica elementare ma coerente e significativa, esso finisce per vivere di vita propria. Cade nelle tentazioni di chi deve piacere (la manina dell'orsetto che fa ciao ciao ai cacciatori che se ne vanno...), ma immediatamente ritrova la strada giusta: l'episodio del puma che chiude il film, il ritorno dello squilibrio ordinato della natura, il rifiuto dell'illusione di una concordia disneyana, la constatazione di una violenza che continuamente s'interpone ad un'armonia di comodo.

Così, L'ORSO ritorna ad essere quello che ci appariva all'inizio: un prodotto del cinema "grande", e quindi pur sempre un oggetto di marketing. Ma anche l'opera di un cineasta che, nell'epoca dello zapping in poltrona, rincorre i sogni utopici della grande favola dell'uomo; e la fascinazione del giocattolo magico del nostro tempo."


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